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lunedì 14 settembre 2009

"Il Pdl non sia monoculturale"


Intervista del Sole 24 ore, 9 settembre 2009, al Vicepresidente dei Senatori del Pdl, Gaetano Quagliariello

II travaglio del Pdl quale specchio della complessità del XXI secolo, dei tempi imposti dalla modernità. E' in questo quadro che Gaetano Quagliariello contestualizza l'aspro dibattito di questi giorni esploso a seguito delle ripetute prese di posizione di Gianfranco Fini. “Tutte le risposte stereotipate del secolo scorso sono state messe in discussione ed è perciò impensabile che un partito rappresentativo del 40% della popolazione possa essere monoculturale”.

Seguendo il suo ragionamento le tesi di Gianfranco Fini su testamento biologico e immigrazione rientrano dunque nell'alveo del Pdl...

L'era delle ideologie è ormai finita, l'agenda politica è segnata da una complessità che ci costringe continuamente a interrogarci, a riaggiornare vecchie categorie. La destra non deve abdicare al proprio patrimonio ma renderlo coerente con i cambiamenti in atto. Soltanto pochi anni fa credo che pochi avrebbero potuto prevedere la centralità del dibattito sui temi etici che stiamo vivendo. Negli anni ‘8o si pensava a una secolarizzazione obbligatoria e invece la dimensione del sacro è tornata a essere protagonista.

Ma questo non è un segnale della debolezza della politica?

Al contrario, la politica ha il dovere di farci i conti. E la destra, non solo in Italia ma in Europa, è senza dubbio all'avanguardia. L'aver preso atto che le religioni non si estinguono non si traduce in un annullamento degli spazi di autonomia dello Stato e delle chiese, ma un conto è l'autonomia, la distinzione, altro è la separazione. In Francia da questo punto di vista Sarkozy ha fatto una vera e propria rivoluzione rispetto alla linea separatista del suo predecessore.

E’ in questo senso che secondo lei anche posizioni come quelle del presidente della Camera rientrano coerentemente nell'alveo del Pdl?

Personalmente sono spesso in disaccordo con le sue affermazioni. Tuttavia le rispetto perché è inevitabile che in un grande partito ci si possa trovare in minoranza, ma non per questo si può essere accusati di aver cambiato fronte. Il Pdl deve abituarsi ad essere un partito più aperto. Il nostro attuale sistema elettorale favorisce le grandi aggregazioni e quindi, o le porte rimangono aperte o sarà sempre più conveniente dar vita a una piccola eresia, provocando così il ritorno alla frammentazione.

Non le sembra che in Italia i grandi partiti abbiano smesso di fare politica, curandosi assai di più delle beghe contingenti?

Alexis de Tocqueville contrapponeva i “piccoli partiti americani” ai “grandi partiti continentali”. Non era una distinzione dovuta alle dimensioni delle singole forze politiche, bensì a quello che esprimevano. I piccoli partiti erano legati maggiormente alle questioni contingenti, piccole cose appunto, che come tali erano inclini maggiormente a servire il sistema ma anche alla corruzione. I grandi partiti europei invece erano mossi da forti ideali, ma spesso non riuscivano a rispondere ai bisogni quotidiani delle persone. Tocqueville non ci spiegò quale fosse la soluzione né oggi siamo in grado di fornire la risposta. Ma è evidente che la sintesi tra queste due categorie deve essere l'obiettivo. Oggi non avrebbe senso un partito concentrato su grandi ideali. I tempi di sedimentazione dell'opinione pubblica sono velocissimi e per questo viviamo in una sorta di campagna elettorale permanente. Non dico che sia un male o un bene, è semplicemente un fatto con cui dobbiamo confrontarci. Ed io credo che la sintesi migliore, al momento, sia riuscire a rispettare il mandato, il patto sancito con gli elettori.

Ma questo rapporto diretto con gli elettori lo stabilisce il leader non il partito: non c'è il rischio di scivolare nel populismo?

Tutti i partiti delle moderne democrazie sono anche populisti ed è inevitabile. La modernità permette oggi un rapporto costante e diretto con i propri sostenitori, basti pensare ai sondaggi, al potere dei media. E non a caso proprio sulle colonne del Sole 24 Ore Andrea Romano ha invitato anche la sinistra a essere più populista.

Seguendo questa impostazione allora la Lega è più populista del Pdl?

La Lega rappresenta l'ultimo fenomeno di una vicenda drammatica. L'Italia è uno stato giovane e, soprattutto nel secondo dopoguerra, ha conosciuto momenti in cui poteva andare in frantumi. Tra il ‘43 e il ‘48 potevamo perdere il Piemonte, la Valle d'Aosta, Trieste; c'erano movimenti separatisti in Sicilia e Sardegna: riuscimmo a venirne fuori. Non meno grave è stato il periodo di Tangentopoli: tra il ‘92 e il '94 1'unita d'Italia tornò a essere messa in discussione. La Lega di allora parlava di secessione, di parlamento padano e la dimensione etnica era portata alle estreme conseguenze. Fu merito di Berlusconi se quella disgregazione non avvenne e se oggi il partito di Bossi non parli più di secessione ma anzi abbia condiviso una riforma del federalismo fiscale solidale con le regioni più deboli.

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